Lucia1: giovane donna che riflette sulla ricerca “Poveri Giovani!”

Iniziando a leggere la ricerca sulla povertà giovanile fatta dalla Caritas diocesana nel 2018 potrebbe nascerti dentro, più o meno all’altezza dello stomaco, un sentimento di impotenza e sconforto. Eppure credo che sia stata una fotografia necessaria e schietta di quella che è la realtà odierna del nostro territorio. Non è un documento uscito mille anni fa, pieno di dati di persone morte e a noi sconosciute, ma è stato presentato a ottobre 2018, quindi al suo interno sono raccolte le storie di persone che girano per strada in questo momento, che conosciamo, forse addirittura noi.

Ciò che più mi ha colpito è stato che la visione “adulta” della povertà è un concetto che ha caratteristiche estreme, ovvero che coinvolge persone che non possono permettersi un affitto, il riscaldamento, i pasti, i vestiti o i libri per la scuola. E questa è sicuramente una situazione di povertà, però appunto estrema. Invece non viene visto come povero un giovane che abbia un lavoro precario che non gli permette di essere indipendente, di andare a vivere fuori casa o chi invece non ha lavoro, ma può essere mantenuto dalla famiglia, senza troppa difficoltà.

Effettivamente, a meno che uno appena laureato non trovi un buon contratto, spesso magari dovendosi trasferire per qualche anno in un’altra città, è difficile mettere da parte i soldi per potersi poi permettere l’indipendenza. E per buon contratto non intendo strapagato, ma un lavoro in regola, con orari decenti, che sia anche in linea con gli studi o con la preparazione professionale che hai fatto. Quando succede una cosa del genere si definisce, in gergo, “colpo di fortuna”. È inaspettato, quasi irreale come trovare una pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno.

Non credo, per fermare tutte le obiezioni possibili, che dietro un’aspettativa del genere ci sia la voglia di non lavorare, perché molti riminesi secondo il report, sin dalle superiori, si impegnano nei lavori stagionali d’estate, che per quanto durino tre/quattro mesi sono fisicamente molto impegnativi, spesso con orari impossibili. Non penso neanche che sia un problema di “fare la gavetta” perché lo sappiamo tutti che il lavoro dei tuoi sogni non ti casca dal cielo, ma devi in qualche modo imparare, fare esperienza della varietà di proposte che la tua formazione ti apre per poi capire qual è quella più adatta a te. In questo sono molto utili i tirocini, gli stage anche se hanno la pecca di essere completamente gratuiti. La domanda è: il gioco vale la candela? È giusto che un percorso di formazione preveda tirocini, magari anche lunghi, che non abbiano un minimo di rimborso spese?

Non dico di distruggere il sistema, di capovolgerlo, ma solo che bisogna pensare a certe cose e, soprattutto, trovare delle soluzioni, fare delle proposte diverse e comunque sostenibili. Altrimenti non cambierà niente.

Gli adulti, anche il Papa, esortano i giovani ad avere sogni grandi perché saranno quelli a portare avanti il futuro. E i giovani i sogni spesso li hanno anche, soprattutto quando sono ancora alle medie o all’inizio delle superiori. Poi vedono come vanno le cose, che i titoli di studio non garantiscono un futuro certo, un lavoro stabile, e i loro sogni iniziano a vacillare, si ridimensionano; ripiegano su quello che ha maggior probabilità di concretezza. Se un ragazzo vede amici/fratelli più grandi che studiano, si impegnano, le provano tutte e poi si ritrovano a fare un lavoro di ripiego, qualcosa che non c’entra niente con quello per cui si sono preparati, con che coraggio porta avanti il proprio sogno? Che i giovani abbiano voglia di fare, di buttarsi, e non abbiano paura di spendersi si vede sia dai dati che la ricerca mostra sulle attività di volontariato, sia da quelli sul lavoro stagionale. Molti lavorano d’estate per pagarsi gli studi, per non gravare eccessivamente sulla famiglia, quindi c’è una volontà di indipendenza, di voler contribuire, per quello che si può, alla propria formazione, al proprio futuro.

L’altro tipo di povertà che troppo spesso viene considerata di serie b è la povertà culturale e relazionale. La scuola è considerata un semplice obbligo, in cui si fanno materie che poi non serviranno più, e spesso la motivazione a studiare è molto bassa. Eppure costruire pensiero, sapersi confrontare, imparare come affrontare i problemi, come suddividere un lavoro complesso sono tutte capacità che dovrebbero essere apprese tra i banchi. È vero che i tempi odierni non aiutano, la cultura della velocità, del multitasking, del perfezionismo a qualunque costo sono agli antipodi di un apprendimento lento ma efficace e duraturo. La costruzione di relazioni poi richiede inevitabilmente tempo e fatica, elementi di cui, oggi, siamo tutti poveri, perché abbiamo altro da fare. E la solitudine, la sensazione di abbandono portano poi a infelicità, egoismo, disagio, all’accontentarsi, a mettere da parte le proprie ambizioni. Giovani soli sono giovani poveri anche se possiedono milioni.

Se ci limitassimo a leggere i giornali, ci faremmo un’idea molto parziale dei giovani di oggi. Nella indagine della Caritas sono stati inseriti alcuni commenti e alcune storie che emergono dalle interviste o dai focus group e mostrano una disponibilità all’aiuto, all’ascolto che, aprendo a caso un quotidiano, non ci verrebbero mai in mente. Eppure non ci verrebbe neanche in mente di andare oltre le parole che leggiamo; sbuffiamo, storciamo la bocca all’ennesima notizia di droga, minacce, voltiamo la pagina infastiditi perché sembra che siamo pieni di delinquenti per strada, anche se dalle scuole, a volte, emergono delle eccellenze, “ma è perché hanno studiato, di certo, mica come quegli altri…” C’è da dire che non viviamo neanche nel paese delle favole. E non possiamo rifugiarci nel luogo comune che “le belle storie non fanno notizia quindi i giornali pubblicano solo cronaca nera”. Non basta. Molti atti di solidarietà rimangono privati, nascosti, molte realtà di aiuto passano sui giornali solo una volta all’anno, eppure dovremmo essere più intelligenti e non fermarci qui. Pensare di sapere tutto dei giovani leggendo un articolo, o anche questo report, sarebbe segno di arrogante superficialità.

1) Lucia Zoffoli fa parte della redazione de Il Ponte giovani, un mensile diocesano scritto da giovani